Il 10% più facoltoso del pianeta consuma il 40 % dell’energia e questo 10% è largamente concentrato nei paesi industriali (quelli occidentali più alcuni paesi asiatici, Giappone, Corea del Sud e più recentemente Cina).
Molti, inclusi molti ecologisti, pensano che questo andazzo non possa cambiare. Il consumo sembra essere quello a cui tutti aspirano, e non solo (comprensibilmente) nelle nazioni povere.
Il problema è che sono proprio quelli che consumano tanto, i cittadini dei paesi ricchi, ad essere impegnati in una caccia forsennata ai consumi, fatta di resse bibliche per il Black Friday e ferventi attese per l’ultima novità. E fatta anche di vite dominate dal lavoro, visto che guadagnare bene è presupposto ineludibile del comprare molto. In altre parole, alla base delle attuali crisi ecologiche c’è il fatto che la gente sembra dare molta importanza ai beni che può comprare e molto poco al proprio tempo.
Questi cambiamenti hanno sorpreso praticamente tutti gli osservatori ma non gli studiosi della felicità e della evoluzione dei valori, consapevoli che nelle nostre società c’è una grande pressione per il cambiamento. La scienza della felicità coinvolge ormai tutte le scienze sociali ed è nata circa 30 anni fa quando si sono scoperti vari modi affidabili di misurarla. Queste misure sono disponibili per molti paesi e molti decenni. Esse mostrano che la crescita economica ha fallito nel migliorare la felicità. Nei paesi industriali la felicità non è cresciuta sostanzialmente negli ultimi decenni e in alcuni paesi è decisamente peggiorata. L’esempio peggiore sono gli Stati Uniti, piagati da suicidi in crescita e da una epidemia di malattie mentali, consumo di droghe psicotrope legali e illegali, infelicità e disperazione che affligge una massa enorme di cittadini.
Si tratta di una evidenza scioccante: come è possibile, alla luce dei risultati raggiunti dal mondo occidentale in tema di prosperità economica, libertà politica, standard educativi, igienici e sanitari, progresso tecnologico, speranza di vita eccetera, che la gente non si senta meglio?
Molti studi hanno mostrato che una gran parte del motivo è nello stile di vita dominante nei paesi industriali, governato dagli imperativi del lavoro e dal consumo. Per comprare molto bisogna lavorare molto, la civiltà del consumo impone un pesante pedaggio agli individui in termini di tempo e energia mentale assorbiti dal lavoro. Ogni sondaggio conferma che quasi tutti sono stressati dal proprio lavoro. Le esigenze di consumo ci impegnano in una rincorsa affannosa al denaro e al successo lavorativo che ci porta a perdere di vista il valore del nostro tempo e delle nostre relazioni.
Invece sono proprio queste le cose più importanti per la nostra felicità. Per riassumere che cosa ci rende felici secondo gli studi bastano due parole: gli altri. È la qualità delle nostre relazioni sociali ed affettive il fattore che pesa di più sulla nostra felicità. Secondo il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman le attività quotidiane più strettamente associate alla felicità sono relazionali, come socializzare dopo il lavoro, cenare con gli amici, fare sesso. Le professioni che rendono la gente più felice hanno un forte contenuto relazionale, anche se non sono particolarmente redditizie, come fare il parrucchiere. Infatti il tipo di povertà che più causa infelicità è quella relazionale: la gente che sta veramente male è sola. E la solitudine è divenuta un problema di massa nei paesi ricchi.
In sostanza lo stile di vita dominante nei paesi industriali è disfunzionale alla felicità. Produce persone, ansiose, aggressive e/o depresse, solitarie e/o conflittuali, competitive, invidiose, insoddisfatte, che vivono intrappolate in una routine lavora/spendi che non dà loro tempo di riflettere. Una routine che somiglia alla ruota che i criceti fanno girare incessantemente correndo, senza in realtà mai muoversi dal fondo della ruota.
Al pari di molte altre crisi, la pandemia ha fatto decollare tendenze già in atto, con l’effetto esplosivo di cambiare il valore che le persone danno al proprio tempo. La gente si è resa conto che quello che compra non lo paga con i soldi ma con il tempo. Il tempo è la vita. E la qualità del tempo è la qualità della vita. Gli studiosi della evoluzione dei valori sanno da decenni che ogni nuova generazione in Europa dà sempre più importanza ai valori cosiddetti post-materialisti. Dare più peso agli affetti e alla socialità, a ciò che condividiamo (come la qualità dell’ambiente) piuttosto che al nostro privato, cercare un ragionevole equilibrio tra vita e lavoro, smettere di identificare il vivere bene con fare soldi o carriera, sono parte di questi valori.
Queste tendenze dei valori sono da tempo in rotta di collisione con il modello di lavoro dominante che è ancora quello novecentesco: si esce di casa la mattina e ci si torna la sera; casa e luogo di lavoro sono in genere distanti. Questo modello di lavoro è basato su due presupposti: 1) una visione della vita in cui le esigenze economiche sono la priorità unica; 2) famiglie stabili con ruoli di genere rigidi. Insomma è un modello pensato per mariti il cui unico compito è procurarsi un reddito, mentre le mogli si occupano dei figli e della economia domestica.
Entrambi questi presupposti non valgono più da tempo. L’esigenza di vite meno ossessionate dal lavoro e dalla performance è pervasiva nelle nostre società. Molta gente cerca da tempo una exit strategy dalla demenziale alternativa tra l’essere stressati perché si lavora troppo o perché si lavora troppo poco (i disoccupati), che è l’alternativa proposta dal modello novecentesco di lavoro. Inoltre la famiglia si è sfilacciata in società ormai popolate da un esercito di single. I ruoli di genere sono in continuo declino, e l’esigenza di uscirne è manifestata anche da molti maschi, che reclamano con sempre maggior forza il tempo con i figli. Il risultato è un mondo di lavoratori che hanno bisogno di flessibilità, di maggior prossimità tra vita e lavoro. Per questo i valori e le aspirazioni delle persone sono entrati da tempo in rotta di collisione con il modello di lavoro novecentesco.
Il nuovo atteggiamento verso il lavoro, esemplificato da Grandi Dimissioni e quiet quitting, han una dimensione così ampia che stanno ridisegnando i motivi dell’insuccesso o del successo delle imprese e conseguentemente anche la loro organizzazione del lavoro. Gli auto–licenziamenti infatti sono costosi per le imprese perché l’investimento fatto per la formazione dei lavoratori viene perduto quando essi si licenziano. È lo è anche il quiet quitting, spesso associato ad un limitato impegno sul lavoro.
La conclusione è che per assicurarsi forza-lavoro di qualità a costi ragionevoli sarà necessario proporre lavori che siano flessibili, facciano un ampio uso di telelavoro ove possibile, ed espandano la compatibilità tra vita e lavoro. E contemporaneamente siano coinvolgenti, motivanti, inseriti in un contesto di relazioni collaborative e gerarchie rilassate. Molte imprese lo hanno capito, moltissime altre no, altre ancora sono scoraggiate dalla complessità del compito, che richiede un profondo cambiamento organizzativo e culturale. Infatti, l’organizzazione del lavoro flessibile è complicata, inoltre la rarefazione degli incontri faccia a faccia rende più difficile creare relazioni e coesione tra i dipendenti, e una cultura d’impresa condivisa. Questi temi sono già al centro del dibattito sui temi d’impresa. Lo saranno sempre più.
Da decenni infatti stanno cambiando i motivi del successo delle imprese. Prima tali motivi dipendevano largamente dall’accesso ai capitali finanziari e alla tecnologia. Poi siamo entrati progressivamente in una epoca diversa, in cui il destino delle imprese si gioca sempre più sulla capacità di connettere in un progetto comune la varietà delle motivazioni, interessi, preferenze, degli individui. Il capitale fondamentale delle imprese non è più finanziario o tecnologico ma è divenuto largamente umano e relazionale. Il capitale umano riguarda le competenze degli individui e il capitale relazionale concerne le sinergie create dalle loro relazioni all’interno delle imprese. Essi sono due aspetti interconnessi perché la capacità di cooperare è un aspetto fondamentale delle abilità degli individui. Il capitalismo digitale americano e di molti altri paesi è un esempio estremo di questo cambiamento. Infatti esso è nato nei garage, gli investimenti che hanno creato piccoli e grandi imperi digitali sono stati minimi.
In conclusione il mondo dell’impresa e del lavoro sta evolvendo in risposta a una crisi profonda del modello di vita basato su elevati livelli di consumi e di lavoro su cui è stata edificata la civiltà industriale dal secondo dopoguerra. Visto che è proprio questo modello che ci ha portati sull’orlo del baratro ecologico, la sua crisi è una ottima novità per l’ambiente. La costruzione della sostenibilità passa per la costruzione di vite meno dominate dal consumo e dal lavoro. La buona notizia è che potremmo stare andando nella direzione giusta. La grande esigenza dei nostri tempi è la qualità della vita, è per questo che masse di lavoratori stanno cercando una via d’uscita da un mercato del lavoro che li spreme oppure li rifiuta (rendendoli disoccupati). Le imprese che sapranno offrire questa via d’uscita avranno un vantaggio competitivo perché attrarranno e manterranno una forza-lavoro stabile e di qualità. Per questo finiranno per indicare la strada a tutto il mondo d’impresa. La direzione verso cui andiamo è il superamento di un sistema che chiede alle persone di essere fatte per l’economia e la creazione di una economia fatta per le persone.
Insegna Economia della Felicità ed Economia Politica all’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi saggi su prestigiose riviste accademiche internazionali. Per Aboca Edizioni ha pubblicato Ecologia della Felicità. Collabora con la Waseda University di Tokyo e ha collaborato con importanti istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, l’OCSE e l’IPSP (International Panel on Social Progress).