L’ape è apparsa sulla terra molto prima dei Sapiens, circa 30 milioni di anni fa. Quello tra ape e uomo è un rapporto che nasce nella notte dei tempi. In epoca preistorica l’uomo cacciatore-raccoglitore comincia a depredare gli alveari e pare che proprio l’apporto di polline e miele abbia avuto un’influenza fondamentale per l’evoluzione di questi ominidi.
Nel corso della storia questo rapporto quasi esclusivamente utilitaristico si evolve. Gli antichi egizi praticavano già il nomadismo delle colonie inseguendo le fioriture lungo il corso del Nilo, le api vengono citate da Socrate che le allevava, se ne parla nei poemi epici come l’Odissea e il primo vero resoconto di studio delle api è nelle Georgiche di Virgilio.
Nel medioevo l’apicoltura è diffusa in monasteri e abbazie dove, oltre a produrre miele e idromele, gli alveari vengono sfruttati per produrre la cera necessaria per la fabbricazione delle candele. Una curiosità: l’ape è stata oggetto di una delle prime osservazioni al microscopio di Galileo Galilei.
Nel XVIII secolo l’attività di allevamento delle api è diffusa in tutta Europa. L’estrazione del miele avviene ancora in seguito all’apicidio: si uccidevano le api fumigandole con lo zolfo e poi venivano estratti i favi; la primavera successiva si raccoglievano gli sciami selvatici e venivano ripopolati i bugni villici (le arnie di paglia, terracotta o legno), per ricominciare la produzione.
In questo periodo dalla Spagna vengono inviati degli alveari nell’America settentrionale, dove non era presente l’ape da miele ma solamente degli apoidei solitari. Nel giro di pochi anni l’apis mellifera si diffonde colonizzando la maggior parte del territorio del Nuovo Mondo.
Bisogna attendere il XIX secolo per arrivare a pratiche di allevamento che non prevedano l’uccisione delle api. Il pastore protestante statunitense Lorenzo Lorraine Langstroth è considerato il padre dell’apicoltura moderna grazie all’invenzione dei telai mobili e alla determinazione dello “spazio d’ape”, che saranno le basi per la costruzione dei primi “alveari moderni”. Grazie a questi diventa possibile la visita e l’estrazione del miele senza dover sopprimere la famiglia.
A differenza di altri animali che hanno condiviso la vita e la storia con l’uomo (cani, cavalli, bovini, eccetera), l’ape rimane impossibile da addomesticare. Anche per questo è così interessante. Noi apicoltori alleviamo un animale non addomesticabile: al giorno d’oggi è una delle pochissime forme di allevamento che non prevede nessun tipo di sofferenza per l’animale.
Nel corso del secolo scorso sono stati fatti progressi enormi sulla conoscenza del mondo delle api, basti pensare alla decodificazione del sistema di comunicazione con la danza che è valso il Premio Nobel a Karl Von Frisch nel 1973. Le api comunicano fra di loro grazie a un tipo di danza che segue una traiettoria a forma di otto, con diverse direzioni e intensità delle vibrazioni. Si può schematizzare in questo modo: di ritorno dall’esterno, l’insetto che ha trovato una fonte nettarifera fornisce alle sorelle mediante la danza le informazioni circa la direzione rispetto alla posizione del sole, la distanza dall’alveare e l’abbondanza di nettare. Dieci api che hanno assistito partono verso l’obiettivo, al rientro eseguono la stessa danza e a quel punto partono in cento; dopo pochissimi passaggi tutte avranno l’informazione in tempi rapidissimi e con la massima efficienza possibile. A pensarci bene, non è né più né meno che il principio utilizzato per il funzionamento dei moderni social network.
Giorgio Celli, il famoso etologo grande osservatore e studioso delle api disse che in un alveare ci sono esattamente la metà dei neuroni di un cervello umano, se a questo uniamo quanto osservato più recentemente da Thomas D. Seeley che sostiene che tutte le decisioni all’interno dell’alveare sono il frutto di un processo democratico e condiviso, possiamo avere un’idea chiara di quanto sia complesso e affascinante questo piccolo, grande universo.
A differenza di altri insetti impollinatori, le api seguono il principio della “fedeltà al fiore”. Questa peculiarità ne fa una macchina estremamente efficiente. In pratica un’ape che al mattino comincia a bottinare su un fiore di melo continuerà per tutto il giorno a visitare solo fiori di quella specie, un’altra ape dello stesso alveare può visitare un fiore di tarassaco e per tutto il giorno non andrà a cercare altro tipo di fiore. Questo è il principio dell’impollinazione entomofila per la fecondazione; i fiori si sono evoluti nel corso dei millenni proprio per permettere questo “trasporto della vita”, il fatto che siano colorati e profumati serve esclusivamente ad attirare gli impollinatori. Le api non vedono il colore rosso e proprio per questo sono pochissimi in natura i fiori di quel colore, uno dei pochi visitati è il papavero che ha dovuto adeguarsi assottigliando i petali in una misura che permettesse alle api di vedere la rifrazione dei raggi del sole attraverso di essi.
Oggi in Italia si allevano circa un milione e mezzo di alveari distribuiti su tutto il territorio nazionale. Data la particolare conformazione del paese abbiamo una varietà di climi, di ambienti e di specie vegetali che ha pochissimi eguali al mondo, e che ci dà la possibilità – caso unico – di proporre quasi cinquanta mieli uniflorali, una bellissima fotografia del nostro ambiente.
Il mercato del miele in Italia ha un valore stimato di circa 220 milioni di euro, il servizio di impollinazione (lavoro indispensabile non retribuito), vale invece 15 miliardi di euro, la produzione agricola nella sua totalità ne vale 60. Le api sono intorno a noi, sempre, anche se non ce ne accorgiamo con il loro incessante lavoro giorno dopo giorno permettono la continuità della vita sulla terra.
Sono l’essere più importante al mondo, a noi andrebbe il compito di salvaguardarle e proteggerle. Dall’inizio degli anni Duemila invece gli apicoltori sono stati testimoni di misteriosi spopolamenti negli alveari, per i quali si sono ipotizzate anche cause molto fantasiose. Dal 2007 si riescono a dimostrare gli effetti letali di alcuni princìpi attivi neurotossici utilizzati in agricoltura che sono stati dapprima sospesi precauzionalmente in Italia e successivamente banditi a livello comunitario.
Queste misure sono state importanti, ma quella oggetto di divieto non è che una minima parte dei pericoli ai quali sono sottoposte le api da parte di un’agricoltura sempre più dipendente dalla chimica. Le principali minacce per gli insetti pronubi oggi sono proprio le sostanze utilizzate in ambito agricolo e i cambiamenti climatici che stanno completamente stravolgendo il naturale percorso delle stagioni e la possibilità per le api di approvvigionarsi delle sufficienti risorse indispensabili per la loro sopravvivenza.
Questa situazione che coinvolge l’apicoltura globale a qualsiasi latitudine sta seriamente mettendo a repentaglio la sopravvivenza delle api e di conseguenza degli apicoltori che ne sono custodi. Le api sono i principali agenti per la diffusione e il mantenimento della biodiversità sul pianeta, a loro si deve l’impollinazione che garantisce il 70% delle colture necessarie alla nostra alimentazione e circa 350.000 specie botaniche che sono a loro volta alimento o habitat per altri animali. La biodiversità è il sistema immunitario del pianeta e andare ad intaccarlo, comprometterlo, potrebbe avere delle conseguenze disastrose.
Oggi, dunque, l’apicoltore non è più il raccoglitore primitivo e nemmeno l’apicida medievale: è invece una figura fortemente specializzata il cui primo obiettivo risiede nella garanzia del benessere dell’animale che alleva. Un ecologista sui generis che deve interagire con un superorganismo, con il tempo atmosferico, la fenologia, le dinamiche di popolazione degli afidi, virus e parassitosi, un professionista con un alto livello tecnico che lavora in silenzio, spesso in solitudine. Guarda il cielo e scorge minacce, osserva un prato e ci vede un mondo.
A volte penso a come è cambiata nel corso del tempo la percezione di tutto quello che mi circonda, è una cosa talmente strana quando mi fermo e me ne rendo conto.
Questo “straniamento dello sguardo” cambia progressivamente ma inesorabilmente il modo con cui osservo ogni cosa, anche la più insignificante ed è un processo irreversibile, una volta che ti è entrato dentro non se ne andrà, dovrai conviverci e continuerà a condizionarti, ancora e ancora. Con questo non mi riferisco solo al modo di guardare il mondo ma anche a come lo percepisco, è quasi una sensazione tattile, come se quello che mi circonda aderisse al mio corpo, e mi si appoggiasse addosso, sulla faccia, le mani, la schiena, le gambe.
Lo sguardo soprattutto, come si guarda il cielo, il ghiaccio che si forma in una pozzanghera, un albero, la forma di una collina, una strada. Come è stata costruita e orientata una casa, e come si differenziano in base al clima del luogo, la forma del tetto e se si sviluppano in orizzontale o in verticale. Sono cose che ci raccontano tanto di come siamo, della nostra storia. Questa deformazione impone un approccio quasi investigativo che mi porta a prestare attenzione ad ogni particolare.
Tutto questo è cominciato con l’inizio del mio lavoro con le api, ma perché succede?
Interagire con questo sistema è estremamente complesso, è necessaria una conoscenza profonda dell’insetto e dell’ambiente in cui si opera; una volta un conoscente folgorato come tanti sulla via di Damasco mi ha chiesto quanto tempo avrebbe richiesto diventare apicoltore. Ci ho pensato un po’ e poi gli ho spiegato che seguendo un corso presso un’associazione e lavorando a contatto con un professionista nel giro di tre anni avrebbe potuto iniziare ad allevare le api, per diventare un apicoltore ne avrebbe impiegati dieci. Per comprendere a fondo un alveare non gli sarebbe bastata la sua intera vita.
La quantità delle variabili interne ed esterne all’alveare e la loro interpretazione rendono difficoltoso il processo decisionale che presuppone gli interventi da parte dell’allevatore. A questo si aggiunge il re di tutti gli handicap, la non scardinabile visione antropocentrica dell’apicoltore che tende a ricondurre ogni variabile a una logica che il più delle volte risulta incompatibile con la vita di quel microcosmo che è la famiglia di api.
Dal cercare di colmare questa differenza morfologica, evolutiva, di specie, dal desiderio di essere realmente utili a degli esseri viventi così fragili senza sapere di esserlo, da tutte queste ed altre migliaia di ragioni deriva quell’attenzione ai particolari che verrà poi estesa a tutto quello che abbiamo intorno.
Gli apicoltori, almeno quelli che ho conosciuto io viaggiando in quattro continenti, si distinguono dalla maggior parte delle persone principalmente per un particolare che deriva direttamente dall’unicità del loro lavoro: un apicoltore si chiede sempre la ragione di ogni cosa, anche la più piccola e apparentemente banale ed approfondisce per comprenderla.
Le api non ci parlano, non si lamentano, non ci cercano e non cercano attenzioni o aiuto da parte nostra. Dobbiamo essere molto attenti a leggere i particolari, i dettagli. Ad incrociare informazioni derivanti dalla lettura di differenti variabili: il tempo, l’ambiente, i fiori, lo stato delle famiglie, e tanti altri.
Dovremmo avere un grande senso di gratitudine nei loro confronti. La maggior parte del nostro cibo e il fatto che questo sgangherato pianeta sia ancora un luogo ospitale per noi, derivano dal loro lavoro prima che dal nostro. E poi, anche la bellezza, quella data dai colori e i profumi sarebbe stata inutile senza di loro: la natura conserva solo ciò che ha una reale utilità per l’ecosistema.
Io personalmente in quanto apicoltore ma prima ancora come uomo, quindi appartenente alla specie più degradata del regno animale, sarò per sempre grato per questo sguardo sul mondo, donato dal più piccolo degli animali allevati, uno dei tanti, tantissimi regali che ci fa ogni giorno.
Nel frattempo continuo incessantemente ad andare in apiario, ad osservare, a studiare le api per diventare un apicoltore migliore, per essergli utile e per capirle meglio, ogni giorno di più. E alla fine, per diventare io stesso un’ape.
Diego Pagani Piemontese, classe 1973, è apicoltore di professione dal 1996. Ha circa 1000 arnie, nel piacentino, con cui produce soprattutto miele. Dal 2008 è Presidente del Consorzio Conapi (Consorzio apicoltori e agricoltori biologici italiani).Tra le esperienze più forti e significative cita i percorsi di formazione, in collaborazione con Slow Food, per gli apicoltori in Etiopia, paese dove è stato tre volte tra il 2007 e il 2009. Dal 2011 fino al 2019 è stato componente dell’organizzazione Apimondia (Federazione Internazionale delle Associazioni di Apicoltori) ricoprendo il ruolo di presidente della Commissione Regionale europea.